Perché siamo contrari alla proposta di legge popolare della Commissione Rodotà

Perché siamo contrari alla proposta di legge popolare della Commissione Rodotà

Da più parti siamo stati richiesti di chiarire il nostro punto di vista sulla disciplina dei beni comuni secondo lo schema della Commissione Rodotà che dovrebbe essere trasformata in una proposta di legge popolare. lo facciamo di buon grado.

La teoria dei beni comuni ha avuto il grande merito di porre in evidenza il grande squilibrio che si è creato in Italia, a seguito di privatizzazioni, delocalizzazioni e svendite, tra il patrimonio pubblico e i crescenti patrimoni privati, sovente stranieri.

Essa tuttavia ha usato un sistema che anziché favorire il riequilibrio tra pubblico e privato lo aggrava ed in oltre ha avuto il torto di confondere le idee sostituendo le parole del codice civile con prole diverse. Soffermiamoci un attimo su questo punto. Secondo la Commissione Rodotà i beni comuni soddisfano utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali: non dice così nulla di nuovo. Infatti si è sempre parlato di utilità pubblica per i beni collocati fuori commercio. Inoltre è da rilevare per inciso che in questa definizione manca ogni riferimento alla “funzione sociale” della proprietà.

Altri casi di cambi puramente nominali sono i seguenti:

Primo: i beni definiti dal codice civile demaniali vengono chiamati “beni ad appartenenza pubblica necessaria”; secondo: i beni che il codice civile definisce patrimonio indisponibile dello Stato vengono definiti “beni pubblici sociali”; terzo: i beni che il codice civile definisce patrimonio disponibile vengono definiti “beni pubblici fruttiferi”.

C’era proprio necessità di creare questa confusione?

La cosa più grave è che la commissione Rodotà sostituisce al regime della demanialità e della patrimonialità la classificazione dei beni pubblici fondata sulla loro natura e funzione. Ciò comporta delle difficoltà enormi qualora si tratti di agire giudizialmente per ottenere da imprese straniere la restituzione dei beni industriali italiani “privatizzati, delocalizzati o svenduti”.

Sul piano internazionale è molto più semplice affermare questi beni appartengano al popolo italiano anziché dire si tratta di beni comuni a causa della loro natura e funzione.

La risposta più ovvia che potrebbe esser data è quella che tali beni continuano a svolgere la loro funzione in un paese straniero e non c’è spazio per la loro restituzione agli italiani. Inoltre, eliminando la titolarità del bene, i beni abbandonati diventano oggetto di dominio da parte di chicchessia anziché tornare come vuole l’ordinamento giuridico nella proprietà collettiva del popolo tenuto ad utilizzarli per la loro  funzione sociale.

In sostanza si tratta di un testo che confonde la terminologia e manca di attualità. Infatti la situazione attuale deve mirare, come si accennava all’inizio alla ricostituzione del patrimonio pubblico, ad affermare cioè “la proprietà pubblica” e la funzione sociale della proprietà, come prescrive l’articolo 42 della Costituzione.

Si invita per tanto a leggere il nostro articolo:

RICOSTRUIRE IL PATRIMONIO DEL POPOLO: LA “PROPRIETA’ PUBBLICA”.

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