I tre pilastri

I tre pilastri giuridici ed economici a fondamento dell’attività dell’Associazione Attuare la Costituzione.

I tre pilastri giuridici ed economici a fondamento dell’attività dell’Associazione “Attuare la Costituzione”.

I termini Repubblica, Comunità Politica, Stato-Comunità, e Popolo sono, in Costituzione, pressoché equivalenti.

E’ necessario chiarire che le prime “comunità politiche” sono nate circa 10.000 anni fa, quando l’uomo branco ha deciso di riunirsi in un aggregato umano installandosi su un territorio delimitato da confini. Nella comunità politica confluiscono tre elementi giuridicamente rilevanti: il Popolo, cioè l’aggregato umano organizzato; il Territorio, cioè lo spazio di terra occupato stabilmente dal Popolo; la Sovranità, cioè il potere supremo di dettare le regole della convivenza civile. La Comunità politica, storicamente, ha assunto il nome di Repubblica (Res Pubblica), e più di recente quello di Stato-comunità, concetto che deve essere tenuto distinto da quello di Stato persona giuridica che indica soltanto la pubblica amministrazione.

E’ agevole comprendere che, sin dagli in inizi, Il Popolo, essendo titolare della sovranità, ha stabilito esso le norme di organizzazione della vita civile, e in primo luogo il governo dell’economia.

Infatti la circolazione della ricchezza nella Comunità politica, e della moneta in particolare, è essenziale al funzionamento della comunità stessa e può essere paragonata alla circolazione del sangue nel corpo umano. Pertanto il diritto ha preceduto l’economia e ha stabilito le regole in base alle quali la ricchezza possa essere redistribuita fra tutti i cittadini, in modo che sia assicurata la sua circolazione. E’ in fondo quanto prevede la nostra Costituzione repubblicana, che ha informato i rapporti economici ai principi keynesiani.

La crisi economica attuale dipende dal fatto che le regole sono scritte, non più dal diritto, ma dall’economia stessa, creando diseguaglianze e bloccando l’ordinato sviluppo della vita economica, sociale e politica.

In sostanza, si è trasformato il tradizionale sistema economico produttivo in un sistema predatorio di carattere neoliberista, secondo il quale la ricchezza non deve circolare ma deve essere accentrata nelle mani di pochi, mentre è fatto divieto al Popolo, e cioè allo Stato-Comunità, di intervenire come protagonista nell’economia. Ne consegue che la ricchezza nazionale è stata dispersa tra i singoli operatori economici, prevalentemente stranieri, che perseguono finalità egoistiche e non il bene comune, con l’inevitabile effetto della distruzione di una ordinata vita sociale.

La conseguenza più evidente consiste nel divario sempre crescente tra ricchi e poveri e, sul piano contabile, la sempre crescente passività dei bilanci pubblici, oberati da debiti. Infatti, se la moneta non circola, non si può avere sviluppo economico e la conseguenza immediata è il fallimento delle imprese e la inevitabile, conseguente disoccupazione dei lavoratori.

Per capovolgere questa aberrante situazione, c’è tuttavia una via d’uscita: la strada maestra è quella di applicare il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione e il titolo terzo, parte prima, della Costituzione stessa, la quale è stata rinnovata e rivitalizzata dal voto referendario del 4 dicembre 2016.

In questo quadro è da sottolineare che il singolo cittadino partecipa al governo della nazione e agisce in ogni caso come parte del tutto per il perseguimento degli obiettivi comuni. La “rappresentanza” politica, in sostanza, è affiancata e controllata dalla “partecipazione” popolare. Lo afferma a chiare lettere il citato secondo comma dell’art. 3 Cost, secondo il quale tutti i cittadini “partecipano all’organizzazione della vita economica, politica e sociale del Paese”, e l’ultimo comma dell’art. 118 Cost., secondo il quale i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale, secondo il principio di sussidiarietà.

. PROPRIETA’ PRIVATA E SUPERPROPRIETA’ COLLETTIVA

Abbiamo sottolineato in più scritti che l’Italia può uscire dalla crisi soltanto se i nostri governanti (opponendosi anche al regime di austerità impostoci dalla cosiddetta Europa) riusciranno ad attuare la parte della Costituzione che riguarda i “rapporti economici” (Titolo III, Parte I, Cost.): un vero e proprio “programma di governo”, che prevede un equilibrato rapporto tra pubblico e privato e, in particolare, l’intervento nel mercato, non solo degli individui, ma anche del Popolo nel suo insieme (attraverso i propri Enti pubblici economici). Infatti soltanto tutto il Popolo può mettere in campo le risorse necessarie per poter evitare che singoli soggetti aspirino la ricchezza di tutti (ricchezza che proviene dal territorio e dalle occasioni di lavoro che lo stare insieme produce) e diventino tanto ricchi da poter governare il mondo sottoponendo ai loro voleri la libertà e la vita stessa di tutti gli altri individui. Questo programma costituzionale è, ovviamente, in contrasto con i Trattati Europei, specie con quelli da Maastricht in poi, i quali, “sacralizzano”, per così dire, il “libero mercato” e il connesso concetto della “concorrenza”, eliminando qualsiasi limite all’accumulo della proprietà privata, e, dunque, all’affermazione del più forte sul più debole.

Ma, per fortuna, la Costituzione della Repubblica Italiana ha una posizione giuridica gerarchicamente superiore ai Trattati, allorché si tratta di tutela dei diritti inviolabili, come dimostra la teoria dei “contro limiti” sempre applicata dalla nostra giurisprudenza costituzionale. Analogo principio è stato affermato più volte, per la Germania, dalla Corte costituzionale tedesca.

Se ci si pone nel quadro tratteggiato dalla nostra Costituzione, il primo dato da chiarire è che non esiste, nel nostro ordinamento giuridico, soltanto la “proprietà privata”, come comunemente si crede, ma che, accanto a questa, esiste, e preesiste, la “proprietà collettiva” dell’intero Popolo. Come ha da tempo dimostrato il Niebhur, riferendosi alla fondazione di Roma, la proprietà collettiva ha preceduto, e di molto, la proprietà privata. Il “territorio”, infatti, è stato sempre ritenuto un “contenuto” della “sovranità”, e, spettando la “sovranità” al “Popolo”, è a questi che fin dalle origini è appartenuto il territorio. Ne è prova il fatto che quando si è voluto dare in possesso ai veterani parte dei terreni conquistati è stata sempre necessaria una manifestazione di volontà del Popolo per “cedere” a singoli una parte delle conquiste. In particolare, occorreva una lex centuriata o un plebiscitum, cui facesse seguito una solenne cerimonia detta della “divisio et adsignatio agrorum”. Qualcosa di simile all’odierna proprietà privata nacque soltanto agli albori del I secolo a.C., quando la giurisprudenza, non senza contrasti, cominciò a parlare del “dominium ex iure Quiritium”. D’altro canto, è da tener presente che l’appartenenza del territorio al titolare della sovranità non venne meno neppure nel medio evo, allorché la sovranità si spostò dal Popolo al Sovrano. In quell’epoca, infatti, si distinse un “dominium utile” del coltivatore della terra, dal “dominium eminens” del Sovrano.

La “cesura” tra territorio e sovranità avvenne solo con la Restaurazione voluta da Napoleone. Infatti, il Portalis, incaricato della redazione del ”Code civil” del 1804, ispirò la sua opera al principio: “l’Imperio al Sovrano, la proprietà ai privati”. E fu qui che la proprietà privata cominciò a essere considerata come “originaria”, dimenticandosene la sua provenienza dalla “proprietà collettiva”.

La Costituzione repubblicana ha tuttavia rimesso le cose a posto. Essa, all’art. 42 Cost., comma 1,dispone che „la proprietà è pubblica e privata“ e, al comma 2, che“la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. C’è, dunque, un atto sovrano del Popolo (la legge), che sottrae a tutti una cosa (e perciò si parla di una cosa “privata”) e la assegna a un singolo, sotto la “condizione risolutiva” che la cosa stessa sia destinata a “una funzione sociale”, per cui, se quest’ultima non fosse perseguita o venisse meno nel tempo, la cosa tornerebbe, ovviamente, là da dove era venuta, e cioè nella proprietà collettiva di tutti, come ricordano, tra l’altro l’art. 827 del codice civile per il bene immobile rimasto senza proprietario, e l’art. 31 del t. u. sull’edilizia in ordine alle costruzioni effettuate senza concessione edilizia e in difformità al piano regolatore generale. E’, quest’ultima, una considerazione molto importante, poiché la cosiddetta crisi economica in atto ha provocato l’abbandono sul territorio nazionale di una quantità enorme di industrie e capannoni non più utilizzati, la cui proprietà, proprio per l’effetto dell’abbandono e del conseguente venir meno della “funzione sociale”, deve ritenersi tornata in capo al Popolo a titolo di proprietà collettiva sovrana, imponendo al Popolo stesso la necessità di una riutilizzazione sociale di tali beni.

Dunque, possiamo concludere sul punto, affermando che, accanto alla proprietà privata, esiste, a titolo di sovranità una “proprietà collettiva” del Popolo sul territorio. E, per essere precisi, occorre anche sottolineare che la “proprietà collettiva” del popolo si manifesta in modo pieno sui “beni demaniali”, assumendo la denominazione, come ricorda il Giannini, di “proprietà collettiva demaniale”, mentre sui beni ceduti in proprietà privata continua a esistere, come ricorda acutamente Carl Schmitt, una sorta di “superproprietà collettiva”, che si manifesta nel potere di pianificazione, di conformazione della proprietà privata e della “concessione edilizia” (è questa l’espressione esatta, non ostante una niente affatto condivisibile sentenza della Corte costituzionale, la n. 5 del 1980, abbia imposto una diversa terminologia).

E in proposito è da ricordare che l’estensione a tutto il territorio nazionale della “necessità” di ottenere la “licenza edilizia” (con tutti i limiti che questa comporta) per qualsiasi tipo di costruzione, avvenuta con la legge urbanistica n. 1150 del 17 agosto 1942, successiva alle disposizioni di cui all’art. 934 e all’art. 952 del codice civile (il quale è stato emanato con Regio decreto 16 marzo 1942, n. 262), in combinato disposto con il citato art. 42 della Costituzione, impone, quanto meno, una diversa interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del codice civile, in base alla quale è doveroso ritenere che il “ius aedificandi”, e cioè il diritto di costruire, non rientra nelle facoltà del proprietario del suolo (come si ricaverebbe dai citati articoli del codice civile), ed è invece espressione di quella “super-proprietà”, a cui sopra si è fatto cenno, della Collettività interessata, il cui contenuto è costituito per l’appunto dal diritto di modificare il territorio. Diritto questo che, come si è detto, si estrinseca nei poteri di pianificazione, di conformazione della proprietà privata, di concessione della licenza edilizia, tutte facoltà che “non” sono state “cedute” al singolo nel momento del riconoscimento della sua proprietà privata. Lo conferma l’art. 31 della citata legge urbanistica, secondo il quale “chiunque …. può ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di legge o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”: in altre parole, ciascun cittadino, può agire in giudizio per tutelare l’interesse generale all’osservanza delle leggi in materia. Una vera e propria “actio popularis”, azione popolare, il cui fondamento, come è noto, è, come accennato, nel comma 2, dell’art. 3 Cost. e nell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, il quale sancisce che “i cittadini, singoli o associati” possono svolgere “attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Insomma si tratta di “attuare la Costituzione”, la cui corretta interpretazione è stata fuorviata da una cultura borghese fatta propria anche dall’Accademia. Ci attende, dunque, un compito non facile, ma necessario, perché si ristabilisca un equilibrio tra pubblico e privato e il Popolo possa tornare a essere “protagonista” dell’economia. Non sfugge infatti che una cosa è far valere “l’imperio della Legge” e altra cosa è far valere in giudizio, contro il proprietario privato, la “proprietà e la superproprietà collettive”, che spettano al Popolo a titolo di sovranità.

. LA “FINANZIARIZZAZIONE” DEI MERCATI – Dal “debito” alla “globalizzazione” della finanza e della disoccupazione

1.- La finanziarizzazione dei mercati in generale. Le teorie economiche di Keynes e quelle neoliberiste. Gli strumenti della cartolarizzazione, dei derivati e ancora di altri titoli commerciabili.

La Storia insegna che il benessere dei Popoli e delle Nazioni dipende dalla produzione di beni reali, dalla massima occupazione, e dalla equa ripartizione dei beni. Finalità in ordine alle quali gioca un ruolo importante il ben noto principio della domanda e dell’offerta, secondo il quale il prezzo è funzione della quantità delle risorse disponibili e dell’intensità dei bisogni da soddisfare. Si tratta, in sostanza, di soddisfare bisogni reali entro i limiti delle risorse effettivamente disponibili, indirizzando queste ultime alla soddisfazione dei bisogni più urgenti, in modo da conferire la massima “utilità” alla merce prodotta. Si evita così lo spreco delle risorse e si assicura nel modo migliore il benessere collettivo. In sostanza il benessere di un uomo singolo viene a coincidere con l’interesse della Collettività.

Su questi principi si fonda la “teoria Keynesiana”, secondo la quale, per ottenere il benessere collettivo, e per uscire da eventuali crisi economiche, occorre far ricorso a due strumenti indispensabili: la distribuzione del reddito alla base della piramide sociale e l’intervento dello Stato (cioè del Popolo nel suo complesso) nell’economia, per la realizzazione di grandi opere pubbliche (per noi sarebbe indispensabile realizzare un’opera pubblica che ponesse in sicurezza il nostro territorio, specie sotto l’aspetto idrogeologico), le quali siano idonee a distribuire danaro su una vasta schiera di lavoratori senza produrre altre merci da collocare sui mercati. E’ evidente, infatti che sono i lavoratori i soggetti che si recano ai negozi, che sono questi ultimi che chiedono merci alle imprese e sono le imprese che assumono lavoratori e producono merci.

Questa teoria, che è stata adottata da Roosevelt dopo la prima grande depressione degli anni trenta e che ci ha concesso trenta anni di benessere dopo la seconda guerra mondiale, è stata da tempo avversata da una folta schiera di economisti, che hanno sempre saputo agire con grande attendismo e pragmatismo, e che si sono ispirati con grande convinzione ai principi del “neoliberismo”. Secondo quest’ultima teoria, è fonte di benessere l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi ed è indispensabile che lo Stato (e cioè i Popoli) sia tenuto ben lontano dall’economia. “Più mercato e meno Stato” andavano ripetendo i nostri ultimi governi di centro destra. Una vera “menzogna”, ma, si sa, le nostre società, come afferma Vladimiro Giacché, vivono nella “menzogna”, pubblicitaria e politica.

Appare subito evidente che questa seconda teoria si fonda sul più sfrenato “egoismo”, è contro il principio di “solidarietà” e, soprattutto, è contro il principio di “eguaglianza economica”, politica e sociale, sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione, che, non lo si dimentichi, è stata rivitalizzata dal voto referendario del 4 dicembre 2016 e che, pertanto, richiede la sua immediata applicazione.

La tesi neoliberista, riportata in auge da Milton Friedman, con un libro (Storia della moneta degli Stati Uniti d’America dal 1867 al 1960), uscito negli anni sessanta, è stata fatta propria, dapprima da Pinochet, il quale ha privatizzato tutto nel Cile, portandolo a una povertà mai prima sperimentata, poi dalla Thatcher, che ha aumentato a dismisura la differenza tra ricchi e poveri in Gran Bretagna, poi da Reagan e dal suo successore Clinton, il quale ha ottenuto lo stesso risultato della Thatcher al punto che nelle ultime elezioni gli elettori americani hanno preferito un repubblicano come Trump a una democratica come la Hillary Clinton, moglie dell’ex Presidente, e espressione degli interessi delle multinazionali e delle banche.

La svolta concreta, decisiva per “l’attuazione pratica” del pensiero neoliberista, è consistita nel far circolare come moneta “piena” (la moneta emessa dalla Banca centrale e accettata per legge da tutti come l’unica moneta valida) i “titoli di credito”, e in particolare i titoli del debito pubblico. In sostanza, si è prima favorito la formazione del “debito” e poi si è messo in commercio il debito stesso, attraverso vari strumenti finanziari, tutti in contrasto con la Costituzione e con le disposizioni del nostro codice civile, ma legittimati dal legislatore ordinario.

In Italia, ai fini della formazione di un insostenibile “debito pubblico”, decisiva fu la lettera del Ministro del Tesoro Andreatta a Ciampi, Governatore della Banca d’Italia, con la quale si dispensava la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i buoni del tesoro rimasti invenduti. La conseguenza immediata fu quella della necessità di rivolgersi al mercato generale per la vendita dei nostri titoli pubblici, con l’effetto che il mercato stesso fece arrivare i tassi di interesse (una volta stabiliti dal Tesoro) fino al 25 per cento, caricandoci di un debito, non dovuto a spese eccessive (l’Italia spende il 41 per cento del Pil per lo Stato sociale, mentre la media europea è del 45 per cento), ma alle libere, e spesso concordate, scelte della speculazione finanziaria. Sta di fatto, comunque, che il nostro debito pubblico è quasi tutto formato dai tassi di interesse che la speculazione finanziaria ha caricato sulle nostre spalle, e non deriva, come afferma la Merkel, dal fatto che abbiamo consumato più del necessario.

Il forte indebitamento pubblico italiano ha, tuttavia, offerto al pensiero neoliberista, e, in pratica, alle banche e alle multinazionali, una occasione d’oro per la realizzazione dei loro fini.

Guadagnare sul debito, anziché produrre beni o servizi, permetteva, infatti, di soddisfare il bisogno di ottenere un guadagno immediato, che certamente era molto difficile avere investendo in una impresa produttiva. E si sa, come osserva il Gallino, che gli investitori sono “impazienti” e trovano molto più appetibile un guadagno a breve termine, anziché attendere i lunghi tempi necessari alla creazione di beni reali.

Di qui, il venir in essere di alcuni “colpi di genio” (così afferma il Gallino) della finanza cosiddetta “creativa”, che si è inventata addirittura la “creazione del danaro dal nulla”.

E’ noto che le banche, quando concedono un “prestito”, non danno al cliente del danaro contante, ma iscrivono sul suo conto corrente che una certa somma è a disposizione del cliente stesso. E qui viene in evidenza una, per così dire, “furbizia” contabile“, che fa in modo che la banca non solo non esborsi la somma prestata, ma addirittura faccia aumentare “l’attivo di bilancio” per un importo pari alla somma data in prestito. Il meccanismo è molto semplice: la banca, che, come detto, non paga in contanti il prestito, iscrive nell’attivo del bilancio il suo “credito”, pari alla somma prestata, e al passivo, non parla di “uscita”, ma di “deposito a vista”, fa cioè apparire il suo esborso come un deposito del cliente, che il cliente può, del resto, immediatamente prelevare al bancomat o con un assegno. Il problema, per gli interessi della banca, è il pagamento del debito alla scadenza stabilita, fatto che diminuisce l’attivo dell’importo originariamente prestato, ma occorre tener presente che l’attuazione del principio della “crescita illimitata” fa in modo che la banca possa trovare subito un altro debitore.

Ma c’è di più. La finanza non si ferma a quanto sinora detto e decide di “cartolarizzare” il suo credito (cioè il debito), trasformandolo in un titolo commerciabile. Ciò, come si è avvertito, è contro i principi della Costituzione e del nostro codice civile (il quale, per impedire che un debito possa circolare come moneta, impone, o “la consegna del titolo” (art. 2003 c.c.), o la “girata” (art. 2008 c.c.), o “l’annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e nel registro dell’emittente” (art. 2021 c.c.), tuttavia, come se i principi della Costituzione e le norme del codice civile non valessero nulla, la legge n. 130 del 1999, ha ammesso la trasformazione del credito, e cioè del debito, in un titolo commerciabile, attuando la cosiddetta “cartolarizzazione dei diritti di credito”. Come si nota, ci si è allontanati dal mercato reale e si è dato vita a un mercato fittizio, nel quale si comprano e vendono, non più merci e servizi, ma “titoli di credito” (cioè “diritti astratti”), che circolano come moneta contante e fanno aumentare a dismisura il valore dei capitali, è vero, con “moneta fittizia”, ma che, per volere della legge, è considerata alla pari della moneta “piena”. Il guaio è che il debitore può anche non pagare e che, e questa è la conseguenza più grave, la diffusione di tali strumenti finanziari altera in modo molto consistente la “stabilità” dei mercati. Insomma alla ”realtà” dei beni e servizi” si sostituisce un vero e proprio “gioco o scommessa” sul pagamento del debito, facendo valere il gioco come “moneta piena”. Il che è ovviamente un assurdo.

E non è tutto. La finanza, con la sua grande creatività, si è inventata anche i cosiddetti “derivati”. Questi, in origine, avevano, come suole dirsi, un “sottostante” reale. Ad esempio, un contadino che voleva assicurarsi un certo valore del suo raccolto, poniamo mille lire, stipulava un contratto con un mercante nel quale si obbligava a dare tutto il suo raccolto in cambio di mille lire. Se il raccolto era più abbondante del previsto, guadagnava il mercante, se era meno abbondante, guadagnava il contadino. Insomma si trattava di una forma di assicurazione, ma sempre fondata su un dato reale: lo scambio tra il raccolto e mille lire. I “derivati”, invece, prescindono da qualsiasi dato reale e consistono in una vera e propria “scommessa”, che ha ad oggetto, non un bene reale, ma il valore di mercato di un dato bene. In questa maniera, nota sempre il Gallino, chiunque può acquistare un derivato avente per sottostante mille tonnellate di minerali ferrosi, senza dover né vendere, né comprare un solo chilo di essi. In sostanza le controparti sottoscrivono semplicemente un contratto in base al quale una avrebbe ricevuto, e l’altra pagato, una certa somma se la suddetta quantità di materiali avesse avuto un aumento o una diminuzione di prezzo a una certa data. Insomma, con le cartolarizzazioni e specialmente con i derivati, la “Borsa” cessa di essere un luogo dove si scambiano beni reali e diventa puramente e semplicemente una “bisca”. E’ da sottolineare inoltre che il valore del danaro creato dalle banche private sovrasta di gran lunga quello emesso dalle Banche centrali (per noi dalla BCE). Si calcola che nell’eurozona il danaro in circolazione creato dal nulla si aggiri intorno al 92 per cento, mentre il suo ammontare complessivo, secondo una stima del 2010, da ritenere ora superata, ammontava a 1,2 quadrilioni di dollari: 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. D’altro canto è da tener presente che, quando questa “crescita illimitata” prima o poi finirà, perché non ci saranno più debitori, interrompendosi così quel filo della crescita determinato dall’aumento dell’indebitamento generale, la catastrofe sarà certamente mondiale. Si pensi alle grandi banche piene di derivati, i quali, in questo momento, assolvono al fine di “pareggiare i conti”. Se queste banche si vedessero costrette a vendere questi titoli puramente nominali, chi potrebbe acquistarli? E allora il default generale potrebbe diventare inarrestabile. D’altro canto, l’inventività della finanza pare non abbia limiti e altre fonti di creazione di danaro fittizio sono state inventate: si pensi ai „project bond“, alla cartolarizzazione degli immobili da vendere, e così via dicendo.

E si tenga inoltre presente che, dopo la non convertibilità in oro del dollaro, dichiarata da Nixon il 15 agosto 1971, è venuto meno l’ultimo ancoraggio della moneta alla realtà. L’aver tolto la certezza che il valore del dollaro (al quale erano collegate tutte le monete dei Paesi occidentali, a seguito del Trattato di Bretton Wood del 1944, da noi ratificato nel 1947) subisse soltanto le oscillazioni di mercato relative al metallo aureo, la moneta cartacea, ora digitale, non ha alcun limite predeterminato e dipende soltanto dal volere assoluto e sovrano del mercato generale.

La finanza è così diventata, come ricordava oltre un decennio fa Massimo Luciani, il vero “Antisovrano” del mondo. E’ la finanza, la quale è l’unica realtà da considerare davvero “globalizzata” (insieme con la generale disoccupazione), che ora detta regole alla politica e ai Legislatori degli Stati nazionali o federali. E i Popoli, i quali hanno le loro garanzie scritte nelle rispettive Costituzioni, si vedono impoveriti, privati del lavoro e ridotti in schiavitù da questo perverso sistema economico, niente affatto “produttivo”, come quello indicato da Keynes, ma assolutamente “predatorio”, come voluto dalla idea unica dominante del “neoliberismo”.

Come all’inizio si accennava, non vale più la legge della domanda e dell’offerta, come era nel “mercato di beni reali”, ma l’ “arbitrio” della finanza, completamente sovrana, in quanto sottratta a qualsiasi controllo. E l’assurdo è che questo predominio assoluto è stato decretato da leggi (beninteso incostituzionali), emesse proprio dagli Stati nazionali e federali, i cui Popoli ne subiscono oggi le conseguenze. I Popoli, tuttavia, cominciano a prenderne coscienza. Abbiamo già citato la preferenza data dagli Americani a Trump, anziché alla Clinton; possiamo aggiungere che non sono senza significato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, la vittoria in Italia del no al referendum costituzionale, la sconfitta nelle elezioni politiche tedesche dei partiti sinora al governo e, da ultimo, il tracollo elettorale del partito democratico e di Forza Italia nelle nostre ultime elezioni politiche del 4 marzo 2018. Insomma, in tutto il mondo si sta assistendo a un divario sempre più insostenibile tra lavoratori e speculatori finanziari, con la conseguenza di un generale impoverimento della grande maggioranza dei cittadini. Ed è da tener presente, a questo riguardo, che ciò che avviene sul piano mondiale tra ricchi e poveri, avviene anche sul piano dei rapporti internazionali tra Stati, essendo chiaro che gli Stati economicamente più forti assoggettano ai loro voleri gli Stati economicamente più deboli. E’ quanto avviene, in Europa, tra Germania e Francia da un lato e gli Stati del sud Europa (Grecia e Italia in prima linea) dall’altro.

2 .- I “colpi” messi a segno dalla finanza sul piano internazionale.

A questo punto sono da sottolineare i vari “colpi” che la finanza, in consonanza al pensiero del neoliberismo, “ha messo a segno”, in particolare per quanto riguarda l’Italia, per trasformare la sua “falsa” potenza economica in potenza “reale”, estromettendo gli Stati, e quindi i “Popoli”, dall’economia, facendo “privatizzare” i beni pubblici, facendo ritenere come essenziale al mercato il principio, tutt’altro che solidaristico, della “concorrenza”, e impossessandosi, nel contempo, dei più importanti Istituti finanziari statali, europei e mondiali.

Sul piano internazionale, uno strumento formidabile nelle mani della finanza per potenziare il dominio degli Stati economicamente più forti sugli Stati economicamente deboli e, ovviamente, lo strapotere delle multinazionali e delle banche, (si pensi agli Stati Africani e in genere agli Stati in via di sviluppo, o, com’è per noi, agli Stati del sud Europa rispetto alla Germania, alla Francia e all’Austria) è stato il WTO, l’Organizzazione mondiale per il commercio. Questo organismo di carattere internazionale, cui aderiscono 164 Paesi, promuove la globalizzazione dell’economia, la liberalizzazione commerciale, la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo. E’ inoltre Organo per la risoluzione delle controversie ed ha il potere (e qui sta la effettiva tutela dello strapotere degli Stati economicamente forti) di concedere allo Stato che ricorre il “diritto di ritorsione”. C’è da chiedersi: quale ritorsione può mettere in campo uno Stato economicamente debole, se è in condizione di netta inferiorità economica?

Altri efficienti strumenti di carattere internazionale nelle mani della finanza utili per favorire i propri interessi, sono il FMI, Fondo monetario internazionale, e la Banca mondiale per gli investimenti. Questi due organismi nacquero a seguito degli accordi di Bretton Woods (entrambi videro la luce il 27 dicembre 1945). Il primo doveva servire per promuovere la cooperazione monetaria internazionale, ma si è completamente asservita agli interessi delle multinazionali, al punto che il premio Nobel per l’economia Stiglitz ha formulato l’icastica affermazione FMI = multinazionali. La seconda doveva servire per la ricostruzione e lo sviluppo dei Paesi in difficoltà, ma anch’essa si è asservita alle multinazionali, specialmente quelle americane, e ha promosso dappertutto le “privatizzazioni”, ingannando le attese della generalità dei cittadini.

3. – I “colpi” messi a segno dalla finanza sul piano europeo.

Sul piano europeo, si deve dire che la finanza ha messo a segno i maggiori obiettivi del neoliberismo, perseguendoli con costanza e anche con rapidità davvero impressionanti. L’intera vicenda della costruzione europea è stata seguita sin dalle origini (si pensi al piano Delors) con la finalità precisa di accentrare la ricchezza nelle mani di pochi e di far diventare i lavoratori pura merce oggetto di scambio. E può dirsi che l’obiettivi è stato pienamente raggiunto quando si è arrivati all’adozione della “moneta unica”, cioè del “cambio fisso”, lasciando inalterate e prive di qualsiasi possibilità di allineamento le economie dei vari Stati. Di qui l’enorme distacco che si è verificato tra gli Stati del nord Europa (Germania, Francia, Austria Olanda) e i Paesi del sud Europa, come si è già fatto cenno.

4. – I terribili “colpi” messi a segno dalla finanza per quanto riguarda l’Italia.

Per quanto riguarda l’Italia, deve dirsi che, dopo l’assassinio di Aldo Moro, la finanza ha usato il metodo già sperimentato sul piano internazionale (e portato a termine per quanto riguarda la Grecia): ottenere l‘asservimento dei rappresentanti politici, in modo da ottenere il maggior numero possibile di leggi favorevoli agli interessi delle multinazionali e delle banche e contrarie agli interessi del Popolo italiano.

Del primo atto conforme ai voleri della finanza e contrario agli interessi del popolo italiano, la lettera di Andreatta a Ciampi del 12 febbraio 1981 abbiamo già parlato. E’ ora di fare cenno invece alla legge 30 luglio 1990, n. 218, nota come legge Amato-Carli, e al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, i quali dettero impulso alla “privatizzazione” delle “banche pubbliche” italiane e eliminarono la “separazione” tra banche commerciali e banche di investimento. Fu un colpo gravissimo contro la ricchezza nazionale, non solo perché tolse ingiustificatamente al Popolo la “proprietà collettiva” delle Banche pubbliche, ma anche perché fu penalizzato l’investimento in attività produttive di beni e servizi e si favorì l’investimento in “prodotti finanziari”, facendo in modo che il danaro (reale o fittizio) servisse non più alla produzione di beni reali, ma ad acquistare altro danaro, non importa se “pieno” o “fittizio”.

Le privatizzazioni proseguirono con il decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, che trasformò in SPA l’INA, l’ENI, l’ENEL e l’IRI, in pratica tutto il patrimonio economico in proprietà degli Italiani. Come si legge nel libro di Bruno Amoroso e Nico Perrone, “Capitalismo predatore: come gli USA fermarono i progetti di Mattei e Olivetti”, “le privatizzazioni riportarono l’Italia alle condizioni del dopoguerra: uno Stato minore nel contesto globale, che poteva essere utile in tante situazioni, ma che doveva restare in posizione subordinata. Protagonisti di questa stagione di svendita del patrimonio industriale e bancario pubblico e del risparmio degli Italiani sono stati: Carlo Alberto Ciampi, Giuliano Amato, Lamberto Dini, Romano Prodi e Mario Draghi, che hanno approfittato di una crisi del governo Andreotti per realizzare le indicazioni che venivano dalla finanza internazionale. In quella fase un ruolo di portaborse, osservatore e referente di altri poteri, spettò anche a Mario Monti, fino al ruolo di protagonista assegnatogli da quegli stessi poteri nella politica italiana”.

E non è tutto. Altro colpo drammatico per l’economia italiana è stata la „privatizzazione“ dei servizi pubblici essenziali, che ha rimesso all’arbitrio di singoli pseudoacquirenti il destino di importantissime „fonti di ricchezza nazionale“. Si pensi alle rotte aeree, alle tratte ferroviarie (Montezomolo ha venduto agli Stati Uniti „Italo“), alle linee autostradali e così via dicendo. In proposito, basti pensare che sono state privatizzate (con la prospettiva di probabile svendita), sia le Ferrovie dello Stato (con legge 17 maggio 1985, n. 210), sia le Poste italiane (con decreto legge 1 dicembre 1993, convertito nella legge 29 gennaio 1994, n. 71) e l’elenco, lo si creda, potrebbe continuare a lungo. E’ altresì da sottolineare, per quanto riguarda i “servizi pubblici locali”, che, dopo il referendum del 2011, il quale ha sancito l’obbligo della pubblicità di detti servizi e, in particolare del servizio idrico integrato, il governo Berlusconi, con l’art. 4 del decreto legge 13 agosto 20011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, ha reintrodotto “la gestione concorrenziale” dei servizi in parola (escludendo quello dell’acqua), e che, tuttavia, la Corte costituzionale, con sentenza 17 luglio 2012, n. 199, ha annullato detta norma rilevando “la sua coincidenza rispetto a quella abrogata dal voto popolare, e sottolineando che “l’intento abrogativo riguardava pressoché tutti in servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Ciò non ostante, soltanto il Comune di Napoli ha seguito le prescrizioni della Corte costituzionale, mentre tutti gli altri Comuni, come se nulla fosse, hanno continuato a procedere nelle „privatizzazioni“ di detti servizi, distribuzione dell’acqua compresa.

Usurpata agli Italiani la proprietà pubblica delle industrie e delle aziende, restavano i beni in “proprietà collettiva demaniale” del Popolo italiano. A privatizzarli, cioè a sottrarli alla proprietà dei cittadini italiani, ci pensò il governo Berlusconi. L’art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42, previde la delega al governo per l’attuazione del cosiddetto „federalismo demaniale“, il quale compiortava il trasferimento alle Regioni dei demani statali idrico, marittimo, minerario e culturale, al fine della loro „valorizzazione“ e „alienazione a perivati“. Il successivo decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, attuò detta delega, infrangendo il concetto stesso di „demanio“, il quale, da bene „inalienabile, inusucapibile e inespropriabile“, divenne un „bene alienabile“. Un vero e proprio assurdo. Sempre contro la tutela del territorio in proprietà collettiva del Popolo italiano, si espresse poi il decreto legge n. 1 del 20 gennaio 2012, convertito nella legge 24 marzo 2012, n. 27, emesso dal governo Monti, che deliberò la “liberalizzazione” delle attività economiche mediante l’abrogazione delle norme che prevedano “limiti, licenze, nulla osta, ecc.”, per l’inizio di una attività economica, nonché delle norme che prevedano “divieti o restrizioni” allo svolgimento di dette attività.

5. – L’azione svolta dalla finanza contro gli interessi italiani, utilizzando il “diritto europeo”.

In questo mare di “privatizzazioni” si è inserito l’intervento del cosiddetto “diritto europeo”, che ha avuto ad oggetto, non solo le materie per le quali l’Italia aveva consentito a “limitazioni” della propria sovranità, ma l’intera “politica economica” italiana, imponendoci, non solo il rispetto dei limiti di Maastricht (che la Commissione, con atteggiamento altamente opaco, non ha fatto valere nei confronti della Francia, la quale sfora costantemente il limite del 3 per cento imposto dal Trattato di Maastricht fino al 4,7 per cento, e della Germania, la quale ultima non solo non ha rispettato per 5 anni il limite del 3 per cento di indebitamento, ma non ha mai dichiarato il suo surplus commerciale, che ora rasenta il 9 per cento del Pil), ma anche l’obbligo di osservare la “parità di bilancio”, impedendoci in tal modo qualsiasi possibilità di ripresa economica. Questo obiettivo è stato raggiunto per tredici anni, dal 1 gennaio 1999 al 6 dicembre 2011, mediante l’applicazione del “Regolamento del Consiglio n. 1466/97” (un atto legislativo di secondo grado rispetto ai Trattati), che, in aperta violazione del Trattato di Maastricht, e quindi illegittimamente, fissava per gli Stati in difficoltà, tra i quali l’Italia, l’obbligo del “pareggio di bilancio”. Insomma, mentre l’art. 104 c) del Trattato garantisce agli Stati membri di indebitarsi nell’anno fino al 3 per cento, il Regolamento ha stabilito lo 0 per cento. Un atto, dunque, chiaramente eversivo, la cui illegittimità è stata, per così dire, rafforzata dal successivo Trattato di Lisbona, il quale, nell’art. 126, ha riprodotto testualmente il citato art. 104 c) del Trattato di Maastricht sull’Unione Europea. Il successivo Regolamento n. 1175/2011, accertata la “erroneità” del Regolamento n. 1466/97, lo ha abrogato. Ma immediatamente si è dato spazio a provvedimenti costituenti applicazione anticipata del “fiscal compact”, il quale, non solo ribadisce, ma aggrava il vincolo della parità di bilancio e rende ancora più stridente il contrasto con l’art. 126 del Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione Europea. Si tenga ben presente che il fiscal compact è un Trattato governativo di diritto internazionale e non ha alcun potere di intervenire sulla materia di un Trattato Europeo, poiché le norme contenute in questi ultimi possono essere modificate soltanto con la procedura prevista dall’art. 48 del Trattato di Lisbona. Ad aumentare la confusione, il fiscal compact dichiara di volersi applicare solo se conforme ai Trattati europei. Dunque, il “fiscal compact” è “inapplicabile”. Ciò non ostante se ne pretende l’osservanza.

Da sottolineare che, oltre al comportamento opaco della Commissione Europea, hanno agito illegittimamente, cioè fuori della loro specifica competenza puramente finanziaria, sia il Fondo Monetario Internazionale, sia la BCE., le quali hanno chiesto ogni forma di riforme dal contenuto “marcatamente politico”. Nello spazio di un anno sono stati redatti e approvati patti e trattati, che ricordano, come dice il Gallino, un vero “colpo di Stato a rate”.

Il 25 marzo 2011 è stipulato, su proposta di Francia e Spagna, il “Patto euro plus”, che promuove la realizzazione di una maggiore “competitività”.

Il 4 novembre 2011, il Commissario all’economia europea, Olli Rehn, invia una “lettera” al Nostro Ministro dell’economia contenente perentorie prescrizioni di intervento strutturale, le quali vengono fedelmente eseguite dal subentrato governo Monti in modo davvero impressionante. Questo governo provvede infatti ad allungare l’età del pensionamento e la tendenziale abolizione delle pensioni di anzianità; sposta l’onere fiscale del lavoro ai consumi e alle proprietà immobiliari; fissa le caratteristiche che avrebbe dovuto presentare la riforma del lavoro, introdotta nel marzo 2012 dalla Ministra del lavoro Elsa Fornero; provvede alla modernizzazione della pubblica amministrazione, ivi comprese le misure per ridurre il personale, quali la mobilità obbligatoria, il part-time, la revisione dell’organico.

Il 13 novembre 2011, su proposta della Commissione, entra in vigore una versione aggiornata del Patto per la stabilità (introdotto in Italia con l’art. 28 della legge n. 448 del 1998, finanziaria per il 1999), denominata “Six-Pack”, in quanto comprendente cinque disposizioni regolative e una direttiva. Con tale provvedimento vengono stabilite

dettagliatamente le “penalità” da comminare ai Paesi che non rispettano i limiti riguardanti il deficit di bilancio e i piani da porre in opera per ridurre, nell’arco di un ventennio, a non più del 60 per cento del Pil l’ammontare del debito, nonché una procedura di voto “rovesciata” (le sanzioni vengono inflitte automaticamente a meno che una maggioranza qualificata di Stati membri voti contro). Tempo concesso per farlo: dieci giorni.

Il 2 febbraio 2012 gli ambasciatori dei Paesi dell’eurozona, sotto la regia del Consiglio europeo, firmano il Trattato che istituisce il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il quale ha il compito di dare prestiti agli Stati membri in difficoltà a condizioni durissime.

Il 9 febbraio 2012 la Commissione europea, la BCE e il Fondo monetario Internazionale inviano al governo greco un “Memorandum di intesa sulle politiche economiche”, da adottare quali condizioni per ricevere assistenza finanziaria.

Il 2 marzo 2012, venticinque Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea firmano un “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governante nell’Unione economica e monetaria”, denominato “fiscal compact”, con il quale, come accennato, viene stabilito l’obbligo del pareggio di bilancio da recepire nella legislazione ordinaria o costituzionale di ogni Paese membro, nonché l’obbligo di ridurre il debito al 60 per cento del Pil con un ritmo di un ventesimo l’anno. Per l’Italia si tratterebbe di 50 miliardi l’anno. Il meccanismo di verifica dell’adempimento di questi obblighi e l’erogazione delle misure punitive è completamente automatico fino all’eventuale intervento della Corte di giustizia europea. A valutare, soppesare e decidere è la Commissione. Lo svuotamento del processo democratico è clamorosamente evidente, visto che la decisione è rimessa a organi non eletti dal Popolo. L’Italia ha proceduto con la massima celerità a far propri i gravosi impegni derivanti dai documenti sopra richiamati. Ed è merito del governo Monti se ci siamo assunti tante e autolesioniste responsabilità, addirittura ponendo in Costituzione (e non usando la legislazione ordinaria, come pure era previsto da questo trattato internazionale) il principio del “pareggio del bilancio”, attraverso una modifica costituzionale approvata dal Parlamento il 18 aprile 2012. “c’è da chiedersi – osserva il Gallino – se qualcuno dei parlamentari italiani che hanno approvato questi diversi impegni avesse una vaga idea di quale perdita di sovranità economica e politica ciò avrebbe comportato, ovvero quale ferita rappresenti per la democrazia. Questo cedimento è imperdonabile, poiché l’Italia, e con essa gli altri Stati in difficoltà, si sarebbero dovuti accordare nel far valere l’illegittimità del fiscal compact, come sopra visto, e comunque resistere, con dignità e senza escludere possibili alternative, alle prese di posizione della Commissione, della BCE e del FMI”.

L’elencazione delle sciagurate azioni della Commissione Europea, della BCE e del FMI naturalmente non finiscono qui. Basti pensare che il Parlamento europeo, senza che nessuno dei nostri rappresentanti facesse una obiezione, ha approvato il TTIP (Trattato internazionale tra Stati Uniti e Unione Europea), poi accantonato da Trump, in base al quale gli investitori e commercianti americani che incontrano ostacoli in disposizioni costituzionali o legislative del Paesi membri dell’Unione, come avviene nelle disposizioni che tutelano la salute o l’ambiente, hanno diritto al risarcimento dei danni, determinato da un arbitro nominato dagli stessi investitori e commercianti. Altro sciagurato trattato è il CETA (trattato fra il Canada e l’Unione Europea), anch’esso approvato dal Parlamento europeo e ora in corso di ratifica presso il nostro Parlamento, che sostanzialmente ripete le disposizioni del TTIP, mettendo al posto dell’arbitro una Commissione arbitrale nominata dai Paesi interessati e concedendo all’Italia 110 marchi di fabbrica sulle migliaia e migliaia che esistono.

6. – La continuità nell’asservimento della politica italiana ai voleri della finanza e della cosiddetta “Europa”.

In questa complessa e inestricabile situazione, le leggi emesse dal Parlamento e molto spesso approvate con la richiesta di fiducia da parte del governo, continuano a fluire di buona lena. Si pensi allo Sblocca Italia del governo Renzi, che ha concesso a una azienda petrolifera straniera tutto il petrolio sottostante al nostro territorio terrestre e marittimo, producendo incalcolabili danni all’ambiente, alla salute e alla economia; si pensi alla Riforma della P.A., sempre del governo Renzi, che ha consentito l’applicabilità del principio del silenzio assenso anche in zone vincolate, ha cancellato il Corpo forestale dello Stato, con la conseguenza che nel 2017 gli incendi estivi hanno superato del 700 per 100 gli

incendi dell’anno precedente e ha sottoposto i Soprintendenti al potere dei Prefetti. Si pensi al Jobs Act dello stesso governo, che ha ridotto i lavoratori a merce di scambio, cancellando i diritti conquistati con decenni di lotta, e così via dicendo.

. E, certamente l’elencazione non finisce qui. Le sciagure prodotte da leggi costituzionalmente illegittime continuano a ritmo serrato e diventa difficoltoso anche annoverarle.

A ciò si aggiunga che, svendute le banche e le industrie. Stiamo svendendo persino tutto il nostro territorio. Abbiamo svenduta l’isola più bella dell’Arcipelago della Maddalena, l’isola di Budelli; sono in vendita il Monte delle Tofane e il Monte Cristallo sopra Cortina d’Ampezzo; sono state vendute quasi tutte le isole della Laguna Veneta, ampi tratti di spiaggia in corrispondenti alberghi costruiti o da costruire e tutti i Fari marittimi (dieci dei quali li ha acquistati la Germania); sono stati svenduti una quantità incredibile di immobili artistici e storici appartenenti allo Stato o a Enti pubblici territoriali. Solo per fare qualche esempio, sono stati svenduti la Zecca monumentale di piazza Verdi a Roma a Cinesi e la Casina Valadier situata al Pincio di Roma a uno sceicco arabo (quest’ultima per appena 16 milioni di euro). E chi voglia saperne di più consulti l’elenco degli immobili da vendere accuratamente custodito dall’Agenzia del Demanio. Intanto anche immobili artistici e storici sono passati in enorme quantità in mano straniera. A Roma l’Hotel Excelsior è in mano Araba, il Grand Hotel di piazza Esedra in mano Cinese, l’Eden in mano inglese, il Flora, che ha cambiato nome, in mano francese, ed è inutile proseguire nell’elencazione.

Siamo allo stremo delle forze. Il governo si arrabatta per la prossima legge di stabilità, mentre incombe sulle nostre spalle, con lo spauracchio di terribili sanzioni punitive, l’obbligo imposto dal “fiscal compact” di accantonare il 20 per cento del Pil per “diminuire” (si fa per dire!) il debito, che è salito sempre più in alto, nonostante tutto.

7. – Uscire dalla crisi attuando la Costituzione.

Alla base, non lo si può invero nasconderlo, c’è la vigenza del sistema economico neoliberista di carattere predatorio, che ci porta alla più nera miseria. Lo dimostra il fatto che, nel mondo, come ha precisato Stiglitz, sono cresciute le economia che hanno seguito i principi keynesiani comportanti l’intervento dello Stato come protagonista dell’economia, come la Cina, l’India e la Polonia, mentre sono caduti nel disastro economico quei paesi che hanno seguite le indicazioni di carattere neoliberiste propugnate dal FMI, come il Senegal e l’Argentina, nonché, in Europa, gli Stati del sud, e in particolare la Grecia (ormai completamente destabilizzata dal punto di vista economico) e l’Italia. L’Italia, tuttavia, ha ancora una possibilità per salvarsi: attuare la Costituzione, specie quella economica, rivalutata dal voto referendario del 4 dicembre 2016, contrastando, innanzitutto, l’attuazione del “fiscal compact”, il quale, come visto, è illegittimo, non solo alla luce della Costituzione italiana, ma anche alla luce dei Trattati Europei. E, comunque, si tenga presente che in caso di contrasto tra questi ultimi e la Costituzione, è la Costituzione, come si è detto, che deve prevalere. E, al riguardo, si tenga nel dovuto conto la lungimiranza dei nostri Costituenti, i quali hanno anche previsto, per così dire, un potere di governo del Popolo, al quale, come si è detto, spetta di “partecipare all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2, Cost.), secondo il principio di sussidiarietà previsto dal più volte citato citato quarto comma dell’art. 118 Cost. E si tenga altresì presente che, come prima detto, oltre a un consistente movimento di pensiero tra gli intellettuali di tutto il mondo, si sta affermando anche nei Popoli il convincimento di dover voltare pagina di fronte all’attuazione del pensiero unico dominante neoliberista. Dunque, non saremo soli. Ci accompagnerà la piena consapevolezza di essere Nazione Europea nel vero senso della parola, e di essere portatori, ad opera della nostra Costituzione, “di inderogabili doveri di solidarietà sociale” (art. 2 Cost.).

PAOLO MADDALENA

Vicepresidente emerito della Corte Costituzionale