Vince la destra alle elezioni, con un programma non dissimile dalla sinistra

Vince la destra alle elezioni, con un programma non dissimile dalla sinistra

L’argomento dominante sulla stampa odierna è il risultato delle elezioni amministrative. Evidente è la vittoria della Meloni ed altrettanto evidente è la sconfitta della Schlein. 

Il dato più inaccettabile che si coglie in questa vicenda è che, nello spazio di 24 ore, tutto l’appoggio dato alla nuova segretaria del PD si è tramutato in una durissima critica, non solo esterna, ma anche interna ai partiti del PD e del M5S.

Il cambiamento repentino di opinioni, con lo schierarsi immediato dalla parte del vincitore, è una brutta anomalia che caratterizza purtroppo il Popolo italiano, ed incide molto negativamente sulle decisioni da intraprendere nell’interesse del Popolo stesso.

Certamente c’è un’identità di vedute di fondo tra destra e sinistra, perché entrambe hanno la stessa politica estera e la stessa politica economica, e si capisce pertanto che gli elettori, avendo negativamente sperimentato i governi di sinistra, si stiano ora spostando sui governi di destra.

Molto negativo è il fatto che sfugge a tutti la causa fondamentale del disastro economico italiano, in ordine al quale nessun partito assume una diretta posizione, come se si trattasse di una eventualità che sfugge ai poteri decisionali della politica.

Invece è proprio questo il punto su cui la sinistra può e deve differenziarsi dalla destra. Si tratta di assumere una posizione fortemente keynesiana nella conduzione delle scelte economiche, e non appiattirsi su posizioni neoliberiste che premiano singoli individui e danneggiano costantemente la collettività, infrangendo il principio fondamentale sancito dall’articolo 3 della Costituzione della eguaglianza economica e sociale.

Anche l’Europa è schierata su posizioni fortemente neoliberiste e i rapporti fra i Paesi membri, nonostante i Trattati affermino come valore la coesione politica e sociale, sono in continua concorrenza fra di loro fino al punto che esistono paradisi fiscali, nei quali si versano le tasse che riguardano gli investimenti e la produzione effettuati in altri Paesi.

In una situazione del genere vale il principio da tempo sottolineato dagli economisti secondo il quale il pesce grosso mangia il merluzzo e l’Italia, purtroppo, dall’assassinio di Aldo Moro in poi, è stato il merluzzo mangiato da Paesi economicamente più forti come Francia e Germania, la quale, solo qualche giorno fa, ha fatto un solo boccone della nostra gloriosa compagnia di bandiera ITA-Alitalia, formata, come si vede nel film “Alitalia siamo noi”, da lavoratori onesti, che hanno svolto con impegno e ottimi risultati i loro compiti.

A questo punto occorre che venga alla ribalta una forza politica realmente di sinistra che, prima di guardare al mercato unico europeo, badi al rafforzamento del mercato interno italiano, riconquistando al Popolo l’imponente complesso industriale che, illegittimamente, da oltre 30 anni, è stato svenduto alle potenze economiche straniere.

Occorre che l’Italia non marci più con una sola gamba e tenga conto di quell’antica e non trascurabile necessità di dividere (i romani parlavano della divisione fra le res in commercio e le res extra commercium) tra beni fuori mercato, appartenenti in proprietà pubblica demaniale del Popolo, e beni commerciabili, ristabilendo i fondamenti indispensabili per il funzionamento di una sana economia, la quale è stata distrutta con le micidiali privatizzazioni e delocalizzazioni, che hanno messo tutta la ricchezza nazionale nelle mani speculative dei privati, togliendola a chi ha la responsabilità di governo.

In una sola parola occorre che la sinistra dichiari in modo non equivocabile che l’Italia deve seguire una politica economica keynesiana di espansione, destinando, ad esempio, i capitali del PNRR al ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia, al risanamento del servizio sanitario che ha bisogno di un raddoppio di medici e infermieri, a una riforma molto consistente dell’istruzione pubblica con assunzione di personale qualificato, alla costruzione di una rete ferroviaria valida, anziché un inutile ponte di Messina e così via dicendo.

Insomma occorre un programma economico che distribuisca la ricchezza alla base della piramide sociale, facendo circolare il denaro disponibile, in modo che i lavoratori vadano ai negozi, i negozi alle imprese e queste assumano e producano, creando un circolo virtuoso ed evitando che l’Italia continui a correre sulla via dell’indebitamento, che è premessa della sua dissoluzione economica e politica.

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Danni derivanti dalla natura e danni derivanti da un sistema economico errato

Danni derivanti dalla natura e danni derivanti da un sistema economico errato

È nell’emergenza che si verifica la validità o non di una politica economica. L’esempio che ci viene dato dal disastro idrogeologico dell’Emilia Romagna e dagli enormi sforzi per riparare i danni ci dà la misura di quanto errata sia stata la politica degli ultimi 30 anni inaugurata da Mario Draghi il 2 giugno 1992, proseguita dallo stesso con la legge sulla concorrenza e il mercato del 2022, e assunta come politica propria dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

I dati stimati per l’Emilia Romagna ammontano a circa 6 miliardi di euro, e, con sforzo straordinario, il governo Meloni è riuscito a racimolare, nelle pieghe del bilancio, 2 miliardi di euro, subito destinati alle azioni di risarcimento dei danni subiti da questa regione.

Non è chiaro da quali finalità siano state sottratte le somme da destinare alla riparazione dei danni provocati dal disastro alluvionale, appare comunque certo che il peso di questi prelievi non riguarderà le classi più abbienti, ma soltanto i consumatori e qualche servizio pubblico essenziale.

Insomma il bilancio italiano, che ha un debito di circa 300 miliardi di euro, non consente interventi straordinari, e quelli adottati, se hanno il pregio di aiutare persone colpite dalla tragedia , hanno il demerito di aver impoverito le somme destinate allo sviluppo economico.

Il punto centrale del discorso sta nell’aver sostituito un’economia di stampo keynesiano, che era fondata sull’intervento dello Stato (il quale, attraverso l’IRI, riusciva a sviluppare l’industria di base e le infrastrutture necessarie allo sviluppo economico), con il neoliberismo, proclamato da Mario Draghi nel 1992, che inneggiava alla privatizzazione dell’industria statale, che è stata attuata, dapprima con la vendita delle banche pubbliche avvenuta nel 1990, e poi con la trasformazione in S.p.A., e conseguente collocazione sul mercato, effettuata dal governo Amato nel 1992, dell’INA, dell’Enel, dell’Eni e dell’IRI, con le sue 1000 aziende pubbliche e 60000 dipendenti, cui hanno fatto seguito un’altra infinità di aziende pubbliche.  

Se queste aziende pubbliche non fossero state messe sul mercato, dove, come dicono gli economisti, il pesce grande mangia il pesce piccolo, l’Italia sarebbe ancora oggi una vera potenza economica e industriale, la cui distruzione è avvenuta con l’imperdonabile errore di collocare sul mercato tutte le aziende pubbliche. 

Ora gli incrementi della ricchezza nazionale possono derivare solo dalla iniziativa privata, la quale persegue interessi individuali e non certo l’interesse pubblico del Popolo sovrano. È divenuto impossibile svolgere una politica economica dopo essersi privati degli Enti pubblici economici e delle Aziende pubbliche.

Insomma, per dirla in una sola parola, il grande capitale pubblico, che aveva portato l’Italia al miracolo economico degli anni ’60, si è dissolto nel nulla nel 2002, e l’IRI è ora incorporata nella Fintecna, con una sede che si trova a Roma in via Vittorio Veneto 89.

La soluzione è ancora possibile, perché è vigente la nostra Costituzione che impone di indirizzare a fini sociali l’attività economica pubblica e privata, fondando questo principio sulla norma, esistente dall’epoca romana, secondo la quale i beni di un Popolo vanno divisi tra beni in commercio e beni fuori commercio, i quali costituiscono una riserva inalienabile, inusocabile e inespropriabile.

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