La “finanziarizzazione” dei mercati

La “finanziarizzazione” dei mercati

La “finanziarizzazione” dei mercati. Dal “debito” alla “globalizzazione” della finanza e della disoccupazione.

La Storia insegna che il benessere dei Popoli e delle Nazioni dipende dalla produzione di beni reali e dalla massima occupazione, finalità in ordine alla quale gioca un ruolo importante il ben noto principio della domanda e dell’offerta, secondo il quale il prezzo è funzione della quantità delle risorse disponibili e dell’intensità dei bisogni da soddisfare. In sostanza, tale principio ci sospinge a soddisfare bisogni reali, entro i limiti delle risorse effettivamente disponibili , indirizzando queste ultime alla soddisfazione dei bisogni più urgenti, e conferendo in tal modo ad esse la massima “utilità”. Si evita così lo spreco delle risorse e si assicura nel modo migliore il benessere collettivo. In sostanza il benessere di un uomo singolo viene a coincidere con l’interesse della Collettività.

Su questi principi si fonda la “teoria Keynesiana”, secondo la quale, per ottenere il benessere collettivo, e per uscire da eventuali crisi economiche, occorre far ricorso a due strumenti indispensabili: la distribuzione del reddito alla base della piramide sociale e l’intervento dello Stato (cioè del Popolo nel suo complesso) nell’economia, per la realizzazione di grandi opere pubbliche (per noi sarebbe indispensabile realizzare un’opera pubblica che ponesse in sicurezza il nostro territorio, specie sotto l’aspetto idrogeologico), le quali siano idonee a distribuire danaro su una vasta schiera di lavoratori senza produrre altre merci da collocare sui mercati. E’ evidente, infatti che sono i lavoratori i soggetti che si recano ai negozi, che sono questi ultimi che chiedono merci alle imprese e sono le imprese che assumono lavoratori e producono merci.

Questa teoria, che è stata adottata da Roosevelt dopo la prima grande depressione degli anni trenta e che ci ha concesso trenta anni di benessere dopo la seconda guerra mondiale, è stata da tempo avversata da una folta schiera di economisti, che hanno sempre saputo agire con grande attendismo e pragmatismo, e che si sono ispirati con grande convinzione ai principi del “neoliberismo”. Secondo quest’ultima teoria, è fonte di benessere l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi ed è indispensabile che lo Stato (e cioè i Popoli) sia tenuto ben lontano dall’economia. “Più mercato e meno Stato” andavano ripetendo i nostri ultimi governi di centro destra. Una vera “menzogna”, ma, si sa, le nostre società, come afferma Vladimiro Giacché, vivono nella “menzogna”, pubblicitaria e politica.

Appare subito evidente che questa seconda teoria si fonda sul più sfrenato “egoismo”, è contro il principio di “solidarietà” e, soprattutto, è contro il principio di “eguaglianza economica”, politica e sociale, sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione, che, non lo si dimentichi, è stata rivitalizzata dal voto referendario del 4 dicembre 2016 e che, pertanto, richiede la sua immediata applicazione.

La tesi neoliberista, riportata in auge da Milton Friedman, con un libro (Storia della moneta degli Stati Uniti d’America dal 1867 al 1960), uscito negli anni sessanta, è stata fatta propria, dapprima da Pinochet, il quale ha privatizzato tutto nel Cile, portandolo a una povertà mai prima sperimentata, poi dalla Tacher, che ha aumentato a dismisura la differenza tra ricchi e poveri in Gran Bretannia, poi da Reagan e dal suo successore Clinton, il quale ha ottenuto lo stesso risultato della Tacher al punto che nelle ultime elezioni gli elettori americani hanno preferito un repubblicano come Trump a una democratica come la Hillary Clinton, moglie dell’ex Presidente, e espressione degli interessi delle multinazionali e delle banche.

La svolta concreta, decisiva per “l’attuazione pratica” del pensiero neoliberista, è consistita nel far circolare come moneta “piena” (la moneta emessa dalla Banca centrale e accettata per legge da tutti come l’unica moneta valida) i “titoli di credito”, e in particolare i titoli del debito pubblico. In sostanza, si è prima favorito la formazione del “debito” e poi si è messo in commercio il debito stesso, attraverso vari strumenti finanziari, tutti in contrasto con la Costituzione e con le disposizioni del nostro codice civile, ma legittimati dal legislatore ordinario.

In Italia, ai fini della formazione di un insostenibile “debito pubblico”, decisiva fu la lettera del Ministro del Tesoro Andreatta a Ciampi, Governatore della Banca d’Italia, con la quale si dispensava la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i buoni del tesoro rimasti invenduti. La conseguenza immediata fu quella della necessità di rivolgersi al mercato generale per la vendita dei nostri titoli pubblici, con l’effetto che il mercato stesso fece arrivare i tassi di interesse (una volta stabiliti dal Tesoro) fino al 25 per cento, caricandoci di un debito, non dovuto a spese eccessive (l’Italia spende il 41 per cento del Pil per lo Stato sociale, mentre la media europea è del 45 per cento), ma alla libere, e spesso concordate, scelte della speculazione finanziaria. Sta di fatto, comunque, che il nostro debito pubblico è quasi tutto formato dai tassi di interesse che la speculazione finanziaria ha caricato sulle nostre spalle, e non , come afferma la Merkel, dal fatto che abbiamo consumato più del necessario.

Il forte indebitamento pubblico italiano ha, tuttavia, offerto al pensiero neoliberista, e, in pratica, alle banche e alle multinazionali, una occasione d’oro per la realizzazione dei loro fini.

Guadagnare sul debito, anziché produrre beni o servizi, permetteva, infatti, di soddisfare il bisogno di ottenere un guadagno immediato, che certamente era molto difficile avere investendo in una impresa produttiva. E si sa, come osserva il Gallino, che gli investitori sono “impazienti” e trovano molto più appetibile un guadagno a breve termine, anziché attendere i lunghi tempi necessari alla creazione di beni reali.

Di qui, il venir in essere di alcuni “colpi di genio” (così afferma il Gallino) della finanza cosiddetta “creativa”, che si è inventata addirittura la “creazione del danaro dal nulla”.

E’ noto che le banche, quando concedono un “prestito”, non danno al cliente del danaro contante, ma iscrivono sul suo conto corrente che una certa somma è a disposizione del cliente stesso. E qui viene in evidenza una, per così dire, “furbizia” contabile che fa in modo che la banca non solo non esborsi la somma prestata, ma addirittura faccia aumentare “l’attivo di bilancio” per un importo pari alla somma data in prestito. Il meccanismo è molto semplice: la banca, che, come detto, non paga in contanti il prestito, iscrive nell’attivo del bilancio il suo “credito”, pari alla somma prestata, e al passivo, non parla di “uscita”, ma di “deposito a vista”, fa cioè apparire il suo esborso come un deposito del cliente, che il cliente può, del resto, immediatamente prelevare al bancomat o con un assegno. Il problema, per gli interessi della banca, è il pagamento del debito alla scadenza stabilita, fatto che diminuisce l’attivo dell’importo originariamente prestato, ma è da tener presente che, da un lato non sempre il debitore paga, e dall’altro l’attuazione del principio della “crescita illimitata” fa in modo che la banca possa trovare subito un altro debitore.

Ma c’è di più. La finanza non si ferma a quanto sinora detto e decide di “cartolarizzare” il suo credito (cioè il debito), trasformandolo in un titolo commerciabile. Ciò, come si è avvertito, è contro i principi della Costituzione e del nostro codice civile (il quale, per impedire che un debito possa circolare come moneta, impone, o “la consegna del titolo” (art. 2003 c.c.), o la “girata” (art. 2008 c.c.), o “l’annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e nel registro dell’emittente” (art. 2021 c.c.), tuttavia, come se i principi della Costituzione e le norme del codice civile non valessero nulla, la legge n. 130 del 1999, ha ammesso la trasformazione del credito, e cioè del debito, in un titolo commerciabile, attuando la cosiddetta “cartolarizzazione dei diritti di credito”. Come si nota, ci si è allontanati dal mercato reale e si è dato vita a un mercato fittizio, nel quale si comprano e vendono, non più merci e servizi, ma “titoli di credito” (cioè “diritti astratti”), che circolano come moneta contante e fanno aumentare a dismisura il valore dei capitali, è vero, con “moneta fittizia”, ma che, per volere della legge, è considerata alla pari della moneta “piena”. Il guaio è che il debitore può anche non pagare e che, e questa è la conseguenza più grave, la diffusione di tali strumenti finanziari altera in modo molto consistente la “stabilità” dei mercati. Insomma alla ”realtà” dei beni e servizi” si sostituisce un vero e proprio “gioco o scommessa” sul pagamento del debito, facendo valere il gioco come “moneta piena”. Il che è ovviamente un assurdo.

E non è tutto. La finanza, con la sua grande creatività, si inventa i “derivati” . Questi, in origine, avevano, come suole dirsi, un “sottostante” reale. Ad esempio, un contadino che voleva assicurarsi un certo valore del suo raccolto, poniamo mille lire, stipulava un contratto con un mercante nel quale si obbligava a dare tutto il suo raccolto in cambio di mille lire. Se il raccolto era più abbondante, guadagnava il mercante, se era meno abbondante, guadagnava il contadino. Insomma si trattava di una forma di assicurazione, ma sempre fondata su un dato reale: lo scambio tra il raccolto e mille lire. I “derivati”, invece, prescindono da qualsiasi dato reale e consistono in una vera e propria “scommessa”, che ha ad oggetto, non un bene reale, ma il valore di mercato di un dato bene. In questa maniera, nota sempre il Gallino, chiunque può acquistare un derivato avente per sottostante mille tonnellate di minerali ferrosi, senza dover né vendere, né comprare un solo chilo di essi. In sostanza le controparti sottoscrivono semplicemente un contratto in base al quale una avrebbe ricevuto, e l’altra pagato, una certa somma se la suddetta quantità di materiali avesse avuto un aumento o una diminuzione di prezzo a una certa data. Insomma, con le cartolarizzazioni e specialmente con i derivati, la “Borsa” cessa di essere un luogo dove si scambiano beni reali e diventa puramente e semplicemente una “bisca”. E’ da sottolineare inoltre che il valore del danaro creato dalle banche private sovrasta di gran lunga quello emesso dalle Banche centrali (per noi dalla BCE). Si calcola che nell’eurozona il danaro in circolazione creato dal nulla si aggiri intorno al 92 per cento, mentre il suo ammontare complessivo, secondo una stima del 2010, da ritenere ora superata, ammontava a 1,2 quadrilioni di dollari: 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. D’altro canto è da tener presente che, quando questa “crescita illimitata” prima o poi finirà, perché non ci saranno più debitori, interrompendosi così quel filo della crescita determinato dall’aumento dell’indebitamento generale, la catastrofe sarà certamente mondiale. Si pensi alle grandi banche piene di derivati, i quali, in questo momento, assolvono al fine di “pareggiare i conti”. Se queste banche si vedessero costrette a vendere questi titoli puramente nominali, chi potrebbe acquistarli? E allora il default generale potrebbe diventare inarrestabile.

E si tenga presente che, dopo la non convertibilità in oro del dollaro, dichiarata da Nixon il 15 agosto 1971, è venuto meno l’ultimo ancoraggio della moneta alla realtà. L’aver tolto la certezza che il valore del dollaro (al quale erano collegate tutte le monete dei Paesi occidentali, a seguito del Trattato di Bretton Wood del 1944, da noi ratificato nel 1947) subisse soltanto le oscillazioni di mercato relative al metallo aureo, la moneta cartacea, ora digitale, non ha alcun limite e dipende dal volere assoluto e sovrano del mercato generale.

La finanza è così diventata, come ricordava oltre un decennio fa Massimo Luciani, il vero “Antisovrano” del mondo. E’ la finanza, la quale è l’unica realtà da considerare davvero “globalizzata” (insieme con la generale disoccupazione), che ora detta regole alla politica e ai Legislatori degli Stati nazionali o federali. E i Popoli, i quali hanno le loro garanzie scritte nelle rispettive Costituzioni, si vedono impoveriti, privati del lavoro e ridotti in schiavitù da questo perverso sistema economico, niente affatto “produttivo”, come quello indicato da Keynes, ma assolutamente “predatorio”, come voluto dalla idea unica dominante del “neoliberismo”.

Come all’inizio si accennava, non vale più la legge della domanda e dell’offerta, come era nel “mercato di beni reali”, ma l’ “arbitrio” della finanza, completamente sovrana, in quanto sottratta a qualsiasi controllo. E l’assurdo è che questo predominio assoluto è stato decretato da leggi (beninteso incostituzionali), emesse proprio dagli Stati nazionali e federali, i cui Popoli ne subiscono oggi le conseguenze. I Popoli, tuttavia, cominciano a prenderne coscienza. Abbiamo già citato la preferenza data dagli Americani a Trump, anziché alla Clinton; possiamo aggiungere che non sono senza significato l’uscita della Gran Bretannia dall’Unione Europea, la vittoria in Italia del no al referendum costituzionale e, da ultimo, la sconfitta nelle elezioni politiche tedesche dei partiti sinora al governo e, in particolare, dei socialisti (passati all’opposizione, dopo il tracollo), e della stessa Merkel, per la quale sarà molto difficile formare un nuovo governo stabile. Insomma, in tutto il mondo si sta assistendo a un divario sempre più insostenibile tra lavoratori e speculatori finanziari, con la conseguenza di un generale impoverimento della grande maggioranza dei cittadini. Ed è da tener presente, a questo riguardo, che ciò che avviene sul piano mondiale tra ricchi e poveri, avviene anche sul piano dei rapporti internazionali tra Stati, essendo chiaro che gli Stati economicamente più forti assoggettano ai loro voleri gli Stati economicamente più deboli. E’ quanto avviene, in Europa, tra Germania e Francia da un lato e gli Stati del sud Europa (Grecia e Italia in prima linea) dall’altro.

A questo punto sono da sottolineare i vari “colpi” che la finanza, in consonanza al pensiero del neoliberismo, “ha messo a segno”, in particolare per quanto riguarda l’Italia, per trasformare la sua “falsa” potenza economica in potenza “reale”, estromettendo gli Stati, e quindi i “Popoli”, dall’economia, facendo “privatizzare” i beni pubblici, facendo ritenere come essenziale al mercato il principio, tutt’altro che solidaristico, della “concorrenza”, e impossessandosi, nel contempo, dei più importanti Istituti finanziari statali, europei e mondiali.

Sul piano internazionale, uno strumento formidabile nella mani della finanza per potenziare il dominio degli Stati economicamente più forti sugli Stati economicamente deboli e, ovviamente, lo strapotere delle multinazionali e delle banche, (si pensi agli Stati Africani e in genere agli Stati in via di sviluppo, o, com’è per noi, agli Stati del sud Europa rispetto alla Germania, alla Francia e all’Austria) è stato il WTO, l’Organizzazione mondiale per il commercio. Questo organismo di carattere internazionale, cui aderiscono 164 Paesi, promuove la globalizzazione dell’economia, la liberalizzazione commerciale, la libera circolazione dei capitali in tutto il mondo. E’ inoltre Organo per la risoluzione delle controversie ed ha il potere (e qui sta la effettiva tutela dello strapotere degli Stati economicamente forti) di concedere allo Stato che ricorre il “diritto di ritorsione”. C’è da chiedersi: quale ritorsione può mettere in campo uno Stato economicamente debole, se è in condizione di netta inferiorità economica?

Altri efficienti strumenti di carattere internazionale nella mani della finanza utile per favorire i propri interessi, sono il FMI, Fondo monetario internazionale, e la Banca mondiale per gli investimenti. Questi due organismi nacquero a seguito degli accordi di Bretton Woods (entrambi videro la luce il 27 dicembre 1945). Il primo doveva servire per promuovere la cooperazione monetaria internazionale, ma si è completamente asservita agli interessi delle multinazionali, al punto che il premio Nobel per l’economia Stiglitz ha formulato l’icastica affermazione FMI = multinazionali. La seconda doveva servire per la ricostruzione e lo sviluppo dei Paesi in difficoltà, ma anch’essa si è asservita alle multinazionali, specialmente quelle americane, e ha promosso dappertutto le “privatizzazioni”, ingannando le attese della generalità dei cittadini.

Sul piano europeo, si deve dire che la finanza ha messo a segno i maggiori obiettivi del neoliberismo, perseguendoli con costanza e anche con rapidità davvero impressionanti. L’intera vicenda della costruzione europea è stata seguita sin dalle origini (si pensi al piano Delors) con la finalità precisa di accentrare la ricchezza nelle mani di pochi e di far diventare i lavoratori pura merce oggetto di scambio. E può dirsi che l’obiettivi è stato pienamente raggiunto quando si è arrivati al’adozione della moneta unica, cioè del “cambio fisso”, lasciando inalterate e prive di qualsiasi possibilità di allineamento le economie dei vari Stati. Di qui l’enorme distacco che si è verificato tra gli Stati del nord Europa (germania, Francia, Austria Olanda) e i Paesi del sud Europa, come si è già fatto cenno.

Per quanto riguarda l’Italia, deve dirsi che, dopo l’assassinio di Aldo Moro, la finanza ha usato il metodo già sperimentato sul piano internazionale (e portato a termine per quanto riguarda la Grecia): ottenere la sottomissione dei rappresentanti politici, in modo da ottenere le leggi favorevoli agli interessi delle multinazionali e delle banche e contrarie agli interessi del Popolo italiano.

Del primo atto conforme ai voleri della finanza e contrario agli interessi del popolo italiano, la lettera di Andreatta a Ciampi del 12 febbraio 1981 abbiamo già parlato. E’ ora di fare cenno invece alla legge 30 luglio 1990, n. 218, nota come legge Amato-Carli, e al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, i quali dettero impulso alla “privatizzazione” delle “banche pubbliche” italiane e eliminarono la “separazione” tra banche commerciali e banche di investimento. Fu un colpo gravissimo contro la ricchezza nazionale, non solo perché tolse ingiustificatamente al Popolo la “proprietà collettiva” delle Banche pubbliche, ma anche perché fu penalizzato l’investimento in attività produttive di beni e servizi e si favorì l’investimento in “prodotti finanziari”, facendo in modo che il danaro (reale o fittizio) servisse non più alla produzione di beni reali, ma ad acquistare altro danaro, non importa se “pieno” o “fittizio”.

Le privatizzazioni proseguirono con il decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, che trasformò in SPA l’INA, l’ENI, l’ENEL e l’IRI, in pratica tutto il patrimonio economico in proprietà degli Italiani. Come si legge nel libro di Bruno Amoroso e Nico Perrone, “Capitalismo predatore: come gli USA fermarono i progetti di Mattei e Olivetti”, “le privatizzazioni riportarono l’Italia alle condizioni del dopoguerra: uno Stato minore nel contesto globale, che poteva essere utile in tante situazioni, ma che doveva restare in posizione subordinata. Protagonisti di questa stagione di svendita del patrimonio industriale e bancario pubblico e del risparmio degli Italiani sono stati: Carlo Alberto Ciampi, Giuliano Amato, Lamberto Dini, Romano Prodi e Mario Draghi, che hanno approfittato di una crisi del governo Andreotti per realizzare le indicazioni che venivano dalla finanza internazionale. In quella fase un ruolo di portaborse, osservatore e referente di altri poteri, spettò anche a Mario Monti, fino al ruolo di protagonista assegnatogli da quegli stessi poteri nella politica italiana”.

Usurpata agli Italiani la proprietà pubblica delle industrie, restavano i beni in “proprietà collettiva demaniale” del Popolo italiano. A privatizzarli, cioè a sottrarli alla proprietà dei cittadini italiani, ci pensò il governo Berlusconi. L’art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42, previde il trasferimento a Regioni, Province e Comuni, dei demani statali idrico, marittimo e minerario, e gli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 28 maggio 2010, ampliando le previsioni della legge (con eccesso di delega sanzionabile dalla Corte costituzionale), decretò la “privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico” e la sua “alienabilità” a privati, stabilendo che la semplice iscrizione dell’immobile nel decreto producesse la sua trasformazione in “bene disponibile”. In tal modo, sono diventati alienabili anche tutti i beni artistici e storici costituenti il patrimonio culturale degli Italiani.

Quanto ai “servizi pubblici essenziali”, basti pensare che sono state privatizzate (con la prospettiva di probabile svendita) le Ferrovie dello Stato (con legge 17 maggio 1985, n. 210), le Poste italiane (con decreto legge 1 dicembre 1993, convertito nella legge 29 gennaio 1994, n. 71) e l’elenco, lo si creda, potrebbe continuare a lungo.

E’ altresì da sottolineare, per quanto riguarda invece i “servizi pubblici locali”, che, dopo il referendum del 2011, il quale ha sancito l’obbligo della pubblicità di detti servizi e, in particolare del servizio idrico integrato, il governo Berlusconi, con l’art. 4 del decreto legge 13 agosto 20011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, ha reintrodotto “la gestione concorrenziale” dei servizi in parola (escludendo quello dell’acqua), e che, tuttavia, la Corte costituzionale, con sentenza 17 luglio 2012, n. 199, ha annullato detta norma rilevando “la sua coincidenza rispetto a quella abrogata dal voto popolare, e sottolineando che “l’intento abrogativo riguardava pressoché tutti in servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Ciò non ostante molti sono gli enti pubblici territoriali che affidano i servizi a gestioni private.

E’ poi da porre nel dovuto risalto il decreto legge n. 1 del 20 gennaio 2012, convertito nella legge 24 marzo 2012, n. 27, emesso dal governo Monti per la “liberalizzazione” delle attività economiche mediante l’abrogazione delle norme che prevedano “limiti, licenze, nulla osta, ecc.” , per l’inizio di una attività economica, nonché delle norme che prevedano “divieti o restrizioni” allo svolgimento di dette attività.

In questo mare di “privatizzazioni” si è inserito l’intervento del cosiddetto “diritto europeo”, che ha avuto ad oggetto, non solo le materie per le quali l’Italia aveva consentito a “limitazioni” della propria sovranità, ma l’intera “politica economica” italiana, imponendoci, non solo il rispetto dei limiti di Maastricht (che la Commissione, con atteggiamento altamente opaco, non ha fatto valere nei confronti della Francia, la quale sfora costantemente il limite del 3 per cento imposto dal Trattato di Maastricht fino al 4,7 per cento, e della Germania, la quale ultima non solo non ha rispettato per 5 anni il limite del 3 per cento di indebitamento, ma non ha mai dichiarato il suo surplus commerciale, che ora rasenta il 9 per cento del Pil), ma anche l’obbligo di osservare la “parità di bilancio”, impedendoci in tal modo qualsiasi possibilità di ripresa economica. Questo obiettivo è stato raggiunto per tredici anni, dal 1 gennaio 1999 al 6 dicembre 2011, mediante l’applicazione del “Regolamento del Consiglio n. 1466/97” (un atto legislativo di secondo grado rispetto ai Trattati), che, in aperta violazione del Trattato di Maastricht, e quindi illegittimamente, fissava per gli Stati in difficoltà, tra i quali l’Italia, l’obbligo del “pareggio di bilancio”. Insomma, mentre l’art. 104 c) del Trattato garantisce agli Stati membri di indebitarsi nell’anno fino al 3 per cento, il Regolamento ha stabilito lo 0 per cento. Un atto, dunque, chiaramente eversivo, la cui illegittimità è stata, per così dire, rafforzata dal successivi Trattato di Lisbona, il quale, nell’art. 126, ha riprodotto testualmente il citato art. 104 c) del Trattato di Maastricht sull’Unione Europea. Il successivo Regolamento n. 1175/2011, accertata la “erroneità” del Regolamento n. 1466/97, lo ha abrogato. Ma immediatamente si è dato spazio a provvedimenti costituenti applicazione anticipata del “fiscal compact”, il quale, non solo ribadisce, ma aggrava il vincolo della parità di bilancio e rende ancora più stridente il contrasto con l’art. 126 del Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione Europea. Si tenga ben presente che il fiscal compact è un Trattato governativo di diritto internazionale e non ha alcun potere di intervenire sulla materia di un Trattato Europeo, poiché le norme contenute in questi ultimi possono essere modificate soltanto con la procedura prevista dall’art. 48 del Trattato di Lisbona. Ad aumentare la confusione, il fiscal compact dichiara di volersi applicare solo se conforme ai Trattati europei. Dunque, il “fiscal compact” è “inapplicabile”. Ciò non ostante se ne pretende l’osservanza.

Da sottolineare che, oltre al comportamento opaco della Commissione Europea, hanno agito illegittimamente, cioè fuori della loro specifica competenza puramente finanziaria, sia il Fondo Monetario Internazionale, sia la BCE. , le quali hanno chiesto ogni forma di riforme dal contenuto “marcatamente politico”. Nello spazio di un anno sono stati redatti e approvati patti e trattati, che ricordano, come dice il Gallino, un vero “colpo di Stato a rate”.

Il 25 marzo 2011 è stipulato, su proposta di Francia e Spagna, il “Patto euro plus”, che promuove la realizzazione di una maggiore “competitività”.

Il 4 novembre 2011, il Commissario all’economia europea, Olli Rehn, invia una “lettera” al Nostro Ministro dell’economia contenente perentorie prescrizioni di intervento strutturale, le quali vengono fedelmente eseguite dal subentrato governo Monti in modo davvero impressionante. Questo governo provvede infatti ad allungare l’età del pensionamento e la tendenziale abolizione delle pensioni di anzianità; sposta l’onere fiscale del lavoro ai consumi e alle proprietà immobiliari; fissa le caratteristiche che avrebbe dovuto presentare la riforma del lavoro, introdotta nel marzo 2012 dalla Ministra del lavoro Elsa Fornero; provvede alla modernizzazione della pubblica amministrazione, ivi comprese le misure per ridurre il personale, quali la mobilità obbligatoria, il part-time, la revisione dell’organico.

Il 13 novembre 2011, su proposta della Commissione, entra in vigore una versione aggiornata del Patto per la stabilità (introdotto in Italia con l’art. 28 della legge n. 448 del 1998, finanziaria per il 1999), denominata “Six-Pack”, in quanto comprendente cinque disposizioni regolative e una direttiva. Con tale provvedimento vengono stabilite dettagliatamente le “penalità” da comminare ai Paesi che non rispettano i limiti riguardanti il deficit di bilancio e i piani da porre in opera per ridurre, nell’arco di un ventennio, a non più del 60 per cento del Pil l’ammontare del debito, nonché una procedura di voto “rovesciata” (le sanzioni vengono inflitte automaticamente a meno che una maggioranza qualificata di Stati membri voti contro). Tempo concesso per farlo: dieci giorni.

Il 2 febbraio 2012 gli ambasciatori dei Paesi dell’eurozona, sotto la regia del Consiglio europeo, firmano il Trattato che istituisce il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il quale ha il compito di dare prestiti agli Stati membri in difficoltà a condizioni durissime.

Il 9 febbraio 2012 la Commissione europea, la BCE e il Fondo monetario Internazionale inviano al governo greco un “Memorandum di intesa sulle politiche economiche”, da adottare quali condizioni per ricevere assistenza finanziaria.

Il 2 marzo 2012, venticinque Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea firmano un “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governante nell’Unione economica e monetaria”, denominato “fiscal compact”, con il quale viene stabilito l’obbligo del pareggio di bilancio da recepire nella legislazione ordinaria o costituzionale di ogni Paese membro, nonché l’obbligo di ridurre il debito al 60 per cento del Pil con un ritmo di un ventesimo l’anno. Per l’Italia si tratterebbe di 50 miliardi l’anno. Il meccanismo di verifica dell’adempimento di questi obblighi e l’erogazione delle misure punitive è completamente automatico fino all’eventuale intervento della Corte di giustizia europea. A valutare, soppesare e decidere è la Commissione. Lo svuotamento del processo democratico è clamorosamente evidente, visto che la decisione è rimessa a organi non eletti dal Popolo. L’Italia ha proceduto con la massima celerità a far propri i gravosi impegni derivanti dai documenti sopra richiamati. Ed è merito del governo Monti se ci siamo assunti tante e autolesioniste responsabilità, addirittura ponendo in Costituzione (e non usando la legislazione ordinaria, come pure era previsto da questo trattato internazionale) il principio del “pareggio del bilancio”, attraverso una modifica costituzionale approvata dal Parlamento il 18 aprile 2012. “c’è da chiedersi – osserva il Gallino – se qualcuno dei parlamentari italiani che hanno approvato questi diversi impegni avesse una vaga idea di quale perdita di sovranità economica e politica ciò avrebbe comportato, ovvero quale ferita rappresenti per la democrazia. Questo cedimento è imperdonabile, poiché l’Italia, e con essa gli altri Stati in difficoltà, si sarebbero dovuti accordare nel far valere l’illegittimità del fiscal compact, come sopra visto, e comunque resistere, con dignità e senza escludere possibili alternative, alle prese di posizione della Commissione, della BCE e del FMI”.

L’elencazione delle sciagurate azioni della Commissione Europea, della BCE e del FMI naturalmente non finiscono qui. Basti pensare che il Parlamento europeo, senza che nessuno dei nostri rappresentanti facesse una obiezione, ha approvato il TTIP (Trattato internazionale tra Stati Uniti e Unione Europea), poi accantonato da Trump, in base al quale gli investitori e commercianti americani che incontrano ostacoli in disposizioni costituzionali o legislative del Paesi membri dell’Unione, come avviene nelle disposizioni che tutelano la salute o l’ambiente, hanno diritto al risarcimento dei danni, determinato da un arbitro nominato dagli stessi investitori e commercianti. Altro sciagurato trattato è il CETA (trattato fra il Canada e l’Unione Europea), anch’esso approvato dal Parlamento europeo e ora in corso di ratifica presso il nostro Parlamento, che sostanzialmente ripete le disposizioni del TTIP, mettendo al posto dell’arbitro una Commissione arbitrale nominata dai Paesi interessati e concedendo all’Italia 110 marchi di fabbrica sulle migliaia e migliaia che esistono.

In questa complessa e inestricabile situazione, le leggi emesse dal Parlamento e molto spesso approvate con la richiesta di fiducia da parte del governo, continuano a fluire di buona lena. Si pensi allo Sblocca Italia del governo Renzi, che ha concesso a una azienda petrolifera stranera tutto il petrolio sottostante al nostro territorio terrestre e marittimo, producendo incalcolabili danni all’ambiente, alla salute e alla economia; ha consentito l’applicabilità del principio del silenzio assenso anche in zone vincolate; ha sottoposto i Soprintendenti al potere dei Prefetti. Si pensi al Jobs Act dello stesso governo, che ha ridotto i lavoratori a merce di scambio, cancellando i diritti conquistati con decenni di lotta, si pensi alla riforma della pubblica amministrazione, sempre del governo Renzi, che ha cancellato il Corpo forestale dello Stato, con la conseguenza che nel 2017 gli incendi estivi hanno superato del 700 per 100 gli incendi dell’anno precedente. E, certamente l’elencazione non finisce qui. Le sciagure prodotte da leggi costituzionalmente illegittime continuano a ritmo serrato e diventa difficoltoso anche annoverarle.

A ciò si aggiunga che, svendute le banche e le industrie. Stiamo svendendo persino tutto il nostro territorio. Abbiamo svenduta l’isola più bella dell’Arcipelago della Maddalena, l’isola di Budelli, sono in vendita il Monte delle Tofane e il Monte Cristallo sopra Cortina d’Ampezzo, sono state vendute quasi tutte le isole della Laguna Veneta, ampi tratti di spiaggia in corrispondenti alberghi costriti o da costruire, tutti i Fari marittimi (dieci dei quali li ha acquistati la Germania), sono steti svenduti una quantità incredibile di immobili artisticin e storici appartenenti allo Stato o a Enti pubblici territoriali. Solo per fare qualche esmpio, sono stati svenduti la Zecca monumentale di piazza Verdi a Roma a Cinesi e la Casina Valadier situata al Pincio di Roma a uno sceicco arabo (quest’ultima per appena 16 milioni di euro. E chi voglia saperne di più veda l’elenco degli immobili da vendere accuratamente custodito dall’Agenzia del Demanio. Intanto anche immobili artistici e storici sono passati in enorme quantità in mano straniera. A roma l’Hotel Excelsior è in mano Araba, il Grand Hotel di piazza Esedra in mano Cinese, l’Eden in mano inglese, il Flora, che ha cambiatio nome, in mano francese, ed è inutile proseguire nell’elencazione.

Siamo allo stremo delle forze. Il governo si arrabatta per la prossima legge di stabilità, mentre incombe sulle nostre spalle l’obbligo imposto dal “fiscal compact” di accantonare il 20 per cento del Pil per “diminuire” (si fa per dire!) il debito, che è salito sempre più in alto, non ostante tutto.

Alla base, non lo si può invero nasconderlo, c’è la vigenza del sistema economico neoliberista di carattere predatorio, che ci porta alla più nera miseria. Lo dimostra il fatto che, nel mondo, come ha precisato Stiglitz, sono cresciute le economia che hanno seguito i principi keinesiani comportanti l’intervento dello Stato come protagonista dell’economia, come la Cina e la Polonia, mentre sono caduti nel disastro economico quei paesi che hanno seguite le indicazioni di carattere neoliberiste propugnate dal FMI, come il Senegal e l’Argentina. L’Italia ha ancora una possibilità per salvarsi: attuare la Costituzione, specie quella economica, rivalutata dal voto referendario del 4 dicembre 2017, contrastando, innanzitutto, l’attuazione del “fiscal compact”, il quale, come visto, è illegittimo, non solo alla luce della Costituzione italiana, ma anche alla luce dei Trattati Europei. E, comunque, si tenga presente che in caso di contrasto tra questi ultimi e la Costituzione, è la Costituzione che deve prevalere. La giurisprudenza costituzionale italiana (come dichiarato, per la Germania, dalla Corte costituzionale tedesca) ha sempre praticato il principio cosiddetto dei “controilimiti”, per cui non può darsi ingresso nell’ordinamento giuridico italiano a una norma che contrasti con i diritti umani sanciti in Costituzione. E, per fortuna, la lungimiranza dei nostri Costituenti ha anche previsto, per così dire, un potere di governo del Popolo, al quale, come si è detto, spetta di “partecipare all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2, Cost.), secondo il principio di sussidiarietà previsto dal citato quarto comma dell’art. 118 Cost. E si tenga altresì presente che, come prima detto, oltre a un consistente movimento di pensiero tra gli intellettuali di tutto il mondo, si sta affermando anche nei Popoli il convincimento di dover voltare pagina di fronte all’attuazione del pensiero unico dominante neoliberista. Dunque, non saremo soli. Ci accompagnerà la piena consapevolezza di essere Nazione Europea nel vero senso della parola, e di essere portatori, ad opera della nostra Costituzione, “di inderogabili doveri di solidarietà sociale” (art. 2 Cost.).

Paolo Maddalena

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